mercoledì 25 aprile 2012

Capitolo 4 - Primum vivere deinde philosophari

Capitolo 4
Primum vivere deinde philosophari
“La vita è proprio quello che ti capita mentre sei indaffarato in altri progetti”
(da “Beautiful Boy” di John Lennon)


Attenzione: il fatto di non limitare il proprio campo di conoscenza al solo ambito dello sperimentabile non rappresenta una resa incondizionata della ragione, che è chiamata a svolgere tutto il suo ruolo, così importante da caratterizzare il genere umano – e d’altra parte ineludibile – ma lo stesso genere umano ha qualcosa che gli permette di trascendere questa sua particolare caratteristica e di attingere ad una verità più alta di quella che la sola ragione è in grado di raggiungere. La limitazione sarebbe necessaria se fosse dimostrato che nell’Universo come essere intelligente non c’è nient’altro che l’uomo. Ma è evidente che l’Universo stesso ci parla di un ordine, che rimanda ad una mente ordinatrice. Si può non essere d’accordo su a chi appartenga questa mente o mettere in dubbio la sua esistenza ma negarla è un po’ forte… è… un boomerang. Chi nega che Dio esista è come se egli stesso pensasse di aver avuto una forma di rivelazione… al contrario! Chi invece possiede questa forza ha una marcia in più in quanto uomo, ma qui non si tratta di mettere in atto solo il cervello, l’intelletto, ma anche il cuore, la volontà nell’aderire a qualcosa rivelata da un altro io, diverso, che vede oltre quello che vediamo noi. In particolare se si possiede la fede questo soggetto è lo stesso Creatore dell’Universo. Si tratta di mettere tutto se stessi, incluso il corpo, a servizio della verità. Adeguare ciò che si crede a ciò che si viene a scoprire. E vivere secondo quello che si crede. Duro, l’abbiamo detto, ma vero. L’alternativa è quella di credere secondo come si vive: è la resa, l’abbassamento degli ideali, anzi la loro scomparsa. La fine della ricerca, la perdita di senso, una morte in vita.


“Lentamente muore” di Martha Medeiros
(erroneamente attribuita a Pablo Neruda)

Lentamente muore
chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle
che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno
di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.
Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza
per l’incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette
almeno una volta nella vita
di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente
chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o
della pioggia incessante.
Lentamente muore
chi abbandona un progetto
prima di iniziarlo,
chi non fa domande
sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde
quando gli chiedono
qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo
di gran lunga maggiore
del semplice fatto di respirare.
Soltanto l’ardente pazienza porterà
al raggiungimento
di una splendida felicità.

Tale forza è nell’accogliere, vedendo con gli occhi del cuore, mediante la fiducia, pur senza comprendere pienamente. Siamo limitati e abbiamo bisogno di dare fiducia agli altri per vivere, sennò non mangeremmo più nulla, smetteremmo di mettere soldi in banca, di fidarci degli amici…
Mi ha riempito di pena recentemente l’intervento di un assessore comunale napoletano ad un convegno - in cui si parlava di etica d’impresa e della figura di un grand’uomo, un imprenditore scomparso da un anno - che rivendicava:“non è necessario essere credenti per avere una propria etica”. Avevo appena concluso la biografia di quest’uomo, grande imprenditore e credente e non avevo certo voglia di polemizzare con l’assessore, peraltro condividendo molti punti della sua analisi sui mali della Campania, ma avrei voluto dirgli: “Caro amico, ti segnalo che l’etica non è certamente un’esclusiva dei credenti, ma certo che un po’ perplessi lascia la tua dichiarazione di non credenza: vorresti forse dire che non credi in tua moglie o compagna che sia o in nessun amico?”. In qualcosa ciascuno di noi deve credere, altrimenti è come morto.
C’è da dire che san Paolo gli da ragione nella lettera ai Romani (2,14-15):
14Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi15essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono.”

L’assessore, infatti, ignora la sua natura creaturale, ma riconosce di avere una coscienza ed un’etica. Naturalmente egli va rispettato nelle sue convinzioni, solo che non fa uso di tutte le sue capacità. Capacità che non si fermano alla sfera della razionalità ma vanno oltre.

Questo non significa che non bisogna pensare: al contrario, bisogna farlo, sapendo che solo in questo modo siamo in grado di percepire la dimensione più profonda del reale che sfugge se ci fermiamo solo all’apparenza, a ciò che si può cogliere con i sensi. Ma è evidente che la filosofia aiuta a inquadrare i problemi, a smascherare le deformazioni dei vari punti di vista, ma viene dopo la vita concreta. “Primum vivere deinde philosophari” i problemi pratici, vitali alla fine vengono prima di quelli astratti e ciascuno di noi si trova a dover affrontare quotidianamente  molti problemi pratici rispetto ai quali questa stessa guida vuole essere d’aiuto, piuttosto che problemi solo teorici.

Per riprendere il filo del nostro ragionamento che si era fermato alle idee preconcette e ai luoghi comuni. Nessuna meraviglia, quindi, se arrivati a 20 anni – tranne nei casi più precoci, per quanto mi riguarda devo ammettere che ho iniziato a interessarmi all’arte solo dopo quest’età – abbiamo le nostre idee un po’ su tutto (anche sull’arte: che pesante responsabilità hanno gli insegnanti delle scuole medie e delle superiori!). Ebbene, al momento di valutare una nuova situazione le nostre idee sono preconcette e lo sono nel senso che “vengono prima” che ci si formi un concetto chiaro su un determinato argomento. Ora è chiaro che queste rappresentano la base sulla quale cercheremo di costruire senza escludere l’ipotesi – per fortuna accade – di cambiare idea.
A questo punto abbiamo da una parte le nostre precedenti acquisizioni, i concetti e le idee che ci siamo formati su quell’argomento e dall’altra i nuovi elementi che su quel fatto su quella situazione avremo raccolto.
Occorre adesso sottoporre le asserzioni proprie o quelle altrui al vaglio della Logica. Si tratta dello studio del ragionamento e dell’argomentazione per definire quali procedimenti di pensiero sono validi e quali non lo siano. Essa deriva il suo nome dal greco “logos” che significa parola, pensiero, ragione e studia i nessi inferenziali – quelli deduttivi e quelli induttivi – relativamente alle proposizioni che compongono la validità e le articolazioni di un discorso.
È un campo molto esteso e conviene studiarla su un buon manuale (ad esempio Roberto Giovanni Timossi Imparare a ragionare, Marietti, 2011).

A questo punto se i vari passaggi che abbiamo analizzato sono stati effettuati siamo pronti a formulare il nostro giudizio. E questo giudizio scaturisce immediatamente. Già, perché il pensiero funziona in frazioni di secondi e la sua decisione l’ha presa, il suo giudizio è formulato. A questo punto il nostro giudizio è lì, è fatto e suscita in noi diverse reazioni: piacere, indignazione, esaltazione, nostalgia…  qualsiasi sia la nostra reazione ci conviene tenerla a bada e, se dobbiamo esprimerla (a tempo e a luogo, ma è sempre consigliabile farlo), facciamolo serenamente.
Solo in questo caso avremo steso un ponte verso gli altri. La violenza, infatti, genera barriere, reazioni difensive o di arrabbiatura, comunque non serene, né costruttive. Ciascuno rimane della sua idea e non c’è confronto, non c’è scambio, non c’è crescita di nessuno.
Serenamente, come di ciò che procede dalla testa senza aver trascurato il cuore.

“Stai ferma, in silenzio, e ascolta il tuo cuore. Quando poi ti parla, alzati e va’ dove lui ti porta”.
(conclusione del libro di Susanna Tamaro “Va dove ti porta il cuore”)

Fiumi d’inchiostro sono stati versati da chi voleva sostenere la priorità dell’una sull’altro o viceversa.

Sentiamo cosa dice Pascal un genio filosofico e matematico francese del XVII secolo:
«Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce[...].» (Blaise Pascal, Pensieri, 277)
“La Fede e la Ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità” è l’incipit dell’enciclica “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II.

Dalle parole di questo gigante dell’umanità e della fede possiamo trarre spunto e insegnamento. È questa la marcia in più che – senza merito da parte sua – ha il credente: egli ha una controprova, una via alternativa di accesso alla verità. D’altra parte è piuttosto logico che, se esiste un Dio e questo Dio ci ha creati, non si accontenti di “assistere allo spettacolo” della nostra vita, di quella degli altri, ma voglia entrare a far parte anch’Egli del gioco della vita è “amante della vita” (Sap. 11,26) ed essere conosciuto e amato, anche se misteriosamente, senza forzarci, per non compromettere la nostra libertà.
Il Rapporto con la Realtà
È necessario adesso affrontare un argomento che è stato solo accennato in precedenza: l’influenza che ha l’etica con la conoscenza ed il rapporto con la realtà.
Il ragionamento, infatti, è un attività per nulla esente dalla nostra corporeità e da quell’ambito che è legato alla corporeità, rappresentato dalle passioni.
Il ragionamento asettico, avulso dalla fisicità e dal nostro modo di reagire al mondo circostante è solo un’ipotesi teorica che non ha nulla a che vedere con la realtà. È del tutto naturale che le idee, le opinioni, i fatti generino in noi delle sensazioni, delle passioni, dei comportamenti che sono tanto distanti dalla fredda razionalità quanto lo è l’anima dal corpo, vivo naturalmente. Al di là della valutazione di tali passioni questo è un dato di fatto. Dalle passioni nascono delitti, lotte, guerre – comprese quelle cosiddette “di religione” – ma anche movimenti di pensiero, opere sociali, gesta eroiche, grandi conquiste di uomini di scienza, di patrioti, di santi. È necessario sempre cercare di razionalizzare, per quanto è possibile, i risultati del proprio ragionamento per vedere se sono coerenti al loro interno e con gli altri elementi già acquisiti e via via che si vanno ad acquisire. Inoltre è necessario che ogni nuova scoperta che va ad aggiornare il bagaglio delle nostre esperienze e della nostra cultura – che occupa, come si è visto, un territorio molto più ampio delle prime – venga si sottoposto al vaglio del nostro giudizio e quindi della nostra razionalità, ma non senza che questa abbia un influsso concreto nel nostro modo di comportarci e nella nostra vita, anche se questo dovesse andare contro le nostre credenze ed abitudini. Ci troviamo qui nella condizione espressa in premessa, di dover cambiare – se si vuole mantenere un buon rapporto con la propria coscienza e non raggirarla – il proprio comportamento, qualcosa di molto intimo e totale: di essere disposti a cambiare.

Di fronte a questo bivio possono esservi diversi tipi di atteggiamento: per semplificare vi è quello opportunistico di chi dice “non mi conviene”, quello rinunciatario di chi dice “non me la sento” e quello di chi, magari anche a malincuore, accetta la sfida. Si è liberi di fare ciò che si vuole, naturalmente, ma la scelta, in un modo o nell’altro, di non ascoltare la propria coscienza è una scelta che prima o poi si paga e anche questo va messo nel conto (lo dico per l’opportunista e per il rinunciatario). Il bruco non diverrà mai farfalla. 

E tu ti senti farfalla?

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