mercoledì 25 aprile 2012

Capitolo 3 - Sulle spalle dei giganti

Capitolo 3
Sulle spalle dei giganti


Chiedere consiglio, dicevamo, significa esercitare la prudenza che ci insegna ad essere maggiormente padroni di noi stessi e a scegliere gli strumenti più adatti per raggiungere il nostro scopo (ciò che poi corrisponde alla definizione di questa virtù). Nella fattispecie, chiedere consiglio – alle persone giuste, è ovvio – può accrescere di molto gli elementi a nostra disposizione per valutare una situazione, prendere una decisione, formulare un giudizio. Con la quantità d’informazioni da cui siamo bersagliati quotidianamente, anzi, direi che chiedere consiglio sulle proprie letture è assolutamente necessario se non si vuole, nella migliore delle ipotesi, perdere un mucchio di tempo. Il guaio è che non sempre cerchiamo o troviamo qualcuno capace di darci questo consiglio e allora ci lasciamo guidare dalla copertina, o dal titolo di un libro quando non anche semplicemente dal suo volume… o dal prezzo: il risultato in ordine all’idea di costruire una propria cultura non può che essere disastroso. Come mettere insieme mattoni di diversa forgia e in punti sempre diversi della casa da costruire, senza neppure arrivare a costruire un solo ambiente!
Per quanto il nostro io si sforzi di stare al centro (cfr. Ugo Borghello, “Liberare l’amore”, Edizioni Ares), di decidere da solo e quasi di “determinare la realtà” le informazioni di cui disporremo, quelle che formano parte del nostro bagaglio culturale, saranno sempre limitate, se non molto limitate. Per questo dobbiamo fare affidamento a chi ci ha preceduto nel cammino del pensiero. I filosofi – letteralmente “amici del pensiero” – greci, se possibile, coloro che hanno posto le basi del pensiero e poi i filosofi moderni, in particolare Cartesio, Kant e Hegel.
Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c'era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all'agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa.”
(Aristotele, Metafisica I,2,982b)

Nell’ambito della filosofia, poi, è utile studiare la logica, l’arte del ragionamento, ciò che permette di confrontare le idee, i fatti e, date determinate premesse, giungere ad una conclusione pertinente, non esplicitamente contenuta nelle premesse iniziali.
Fra gli studiosi della filosofia occidentale Aristotele – nella Grecia, del IV secolo a.C., dove prende le mosse il pensiero filosofico - si distacca da tutti gli altri per la sua cultura enciclopedica, che abbracciava allora tutto lo scibile – studiò la biologia, l’arte, la poesia, la filosofia e la logica - e per la sistematicità del suo pensiero. Egli pone un fondamento logico sulla base del quale si erge ogni possibile pensiero: il principio di non contraddizione.
“Una cosa non può essere e non essere nello stesso luogo e nello stesso tempo”. Su questo principio si è basato il pensiero filosofico fino al XVII secolo, quando Cartesio pone le basi di un nuovo modo di pensare che avrebbe portato successivamente a non accettare la realtà se non evidente e a porre alla base della realtà il pensiero stesso.

Il rapporto fra il pensiero idealista e quello realista è mirabilmente espresso dal famoso dipinto di Raffaello “la Scuola di Atene” dove al centro di un’ampia scena di un sontuoso palazzo in mezzo a tante altre figure al centro sono rappresentate le due figure di Platone e Aristotele, i due maggiori filosofi dell’antichità.  Mentre l’autore della Repubblica indica in alto – nel cosiddetto iperuranio, il mondo delle idee – e nell’induzione la radice del vero, l’Autore dell’Etica invece stende la mano verso terra esponendo così la sua preferenza per le cose reali e il metodo deduttivo. Il punto di fuga posto al centro delle due figure starebbe a indicare che il vero è nella sintesi fra la visione dell’uno e quella dell’altro filosofo. L’affresco, dipinto fra il 1509 e il 1511 nella Stanza della Segnatura all’interno dei Palazzi Vaticani, esalta la ricerca razionale riprendendo i più grandi filosofi, matematici e scienziati fino a quell’epoca.

Nel “cogito ergo sum” (penso dunque sono) di Cartesio  troviamo la generale riconsiderazione di tutto il sapere sulla base del proprio pensiero.

Nella storia del pensiero il discrimine fra il realismo aristotelico e l’idealismo è rappresentato dal seguente concetto espresso dal filosofo francese:
«Il primo era di non prendere mai niente per vero, se non ciò che io avessi chiaramente riconosciuto come tale; ovvero, evitare accuratamente la fretta e il pregiudizio, e di non comprendere nel mio giudizio niente di più di quello che fosse presentato alla mia mente così chiaramente e distintamente da escludere ogni possibilità di dubbio».
(Cartesio, "Discorso sul metodo")

Ecco la prima regola del metodo matematico, quella dell’evidenza, che rappresenta una norma di condotta utile a chi voglia classificare il mondo dal punto di vista scientifico, ma non a chi voglia entrare in una reazione vitale con esso. A chi voglia viverlo, conoscerlo ed accoglierlo non può bastare di accettare tutto e solo ciò che rispetta questo principio. Si può infatti arrivare ad accogliere ciò che non sia chiaro e distinto perché in qualche modo ci trascende, ma non comprenderlo e, d’altra parte è evidente che per comprenderlo, nel senso letterale del termine, dovremmo essere in qualche modo più grandi o superiori rispetto ad esso. Non ci addentriamo, adesso, nella profondità delle conseguenze che tale modo di ragionare ha avuto nel pensiero successivo, ma vale la pena di considerare l’aspetto positivo nella formazione dell’uomo moderno e del passaggio alla cosiddetta post-modernità. Qui troviamo la base del pensiero scientifico e della sua autonomia rispetto ad altre forme di conoscenza che non prevedono le modalità materiali del misurare, verificare, sperimentare. Al tempo stesso egli sa di potersi porre come un ente pensante, in grado di conoscere e di valutare la realtà circostante e di porsi quasi in funzione di giudice sulla stessa, quasi fosse la sua misura. Mentre però Cartesio pone Dio – che non può ingannare, la cui esistenza egli ritiene di dimostrare – come garanzia esterna del suo metodo e del suo ragionamento, egli da luogo ad una deriva idealistico/relativistica sulla possibilità di costruire la realtà a partire dal pensiero (alla quale era già arrivato il sofista Protagora quando affermava che “l’uomo è misura di tutte le cose”). Su questa traccia troviamo anche un grande pensatore tedesco illuminista – Immanuel Kant - che rispondendo alla provocatoria domanda del predicatore Zöllner su cosa fosse l’illuminismo affermava:
«L’Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. “Sapere aude!” Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo.»
(Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?, 1784)

Fondamentale questo passo nel pensiero dell’uomo, che prende le distanze da una visione atta ad accettare supinamente ciò che non viene sottoposto al vaglio – o al tribunale, come diceva Kant – della ragione. Nello stesso documento poc’anzi citato il filosofo tedesco si scaglia contro quei tutori che nei confronti dei propri protetti “dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo descrivono ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, tale pericolo non è poi così grande, poiché, a prezzo di qualche caduta, essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo tipo provoca comunque spavento e, di solito, distoglie da ogni ulteriore tentativo”.
Fa osservare giustamente Curi nelle sue interessanti lezioni tenute all’Università di Padova:
“Si può essere minorenni a 50 anni! Ce ne sono molti. Condizioni per diventare maggiorenni: avere il coraggio di usare il proprio intelletto… senza la guida di altri.”
(Umberto Curi, Pensare con la propria testa, ed. Mimesis, Milano 2009).

Da questo punto di vista è opportuno distinguere, con Kant, “imparare la filosofia” che è l’acquisizione attraverso asserzioni altrui e “imparare a filosofare” che è, invece, conoscenza mediante il proprio ragionamento.
Trovo estremamente interessante il rilievo di Kant e centrale per l’argomento che stiamo trattando. A mio parere deve costituire materia di riflessione per chiunque, dal momento che ciascuno di noi è chiamato a ragionare con la propria testa e non può mai demandare ad altri la responsabilità delle proprie scelte. Un tale tipo di atteggiamento è esattamente quello contro cui si muove Kant: un atteggiamento di minorità di chi, rinunciando a ragionare con la propria testa, continua a usare il “girello” delle idee altrui.
Ancora nel 1786 egli si esprimeva così:
Pensare da se’ significa cercare in se stessi e cioè nella propria ragione la pietra ultima di paragone della verità e la massima che invita a pensare sempre da se’ è l’Aufklärung (l’Illuminismo)”
(Kant, “Che cosa significa orientarsi nel pensiero”, 1786)

È evidente che non a tutti si può chiedere di essere filosofi – lo stesso Kant si rivolgeva ad un pubblico selezionato come quello che poteva permettersi di acquistare libri e giornali e di poterli leggere – tuttavia è possibile pensare che a tutti debba essere dato di formarsi un’idea sui concetti fondamentali dell’uomo, della famiglia e dell’intera società. In tale ambito, ciascuno ha il dovere di formarsi idee proprie ed una propria cultura.

L’importante discrimine indicato da Kant presta tuttavia il fianco ad un’interpretazione sbrigativa e leggera che vuole tener conto solo marginalmente della realtà partendo dalla presunta capacità di autogenerarla attraverso il pensiero stesso (idealismo).  In tale tipo di deriva idealistica anche la considerazione degli altri può a questo punto diventare marginale: sono utili nella misura che mi permettono di raggiungere i miei obiettivi personali.
D’altra parte Hegel criticava, senza citarlo, Kant, quando affermava che non si può pensare se non con la propria testa e che se con questa vogliamo produrre qualcosa di particolare, di originale, senza rifarci alle verità storicamente scoperte da altri – l’universale – probabilmente stiamo semplicemente producendo sciocchezze (si veda il testo, citato, di Umberto Curi).
“Che brutto quadro è quello in cui si ritrae anche l’artista” (…) “Essere originali significa produrre qualcosa di universale”(...) “la smania di pensare con la propria testa consiste in questo: che ognuno mette fuori più sciocchezze di un altro” (…) “L’infelice prurito d’insegnare a pensare da se’ e a produrre autonomamente ha messo in ombra questa verità, come se quando io imparo che cosa sia la sostanza, la causa o qualsiasi altra cosa non pensassi io stesso, non producessi io stesso nel mio pensiero queste determinazioni, ma queste venissero gettate in esso come pietre”
(Hegel, Introduzione alle “Lezioni sulla storia della filosofia”, 1781).

Nella storia del pensiero lo iato aperto dal pensiero di Cartesio si è ulteriormente allargato con l’affermazione di Hegel:
tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale”
(G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione)

ma possiamo davvero credere che il filosofo di Stoccarda volesse fermarsi al pensiero che tutto e solo ciò che è razionale possa essere reale? In altri termini possiamo ragionevolmente pensare che è reale e vero tutto ciò e solo tutto ciò che rientra nel nostro ragionamento? E se non vi rientrasse finirebbe per questo di essere reale? Non è possibile!

Chiesi una volta ad un grand'uomo se credesse davvero che era razionale solo quello che egli era in grado di capire ed egli mi rispose:“Credi davvero che sia così stupido?”.


No, neppure noi vogliamo essere così stupidi. Possiamo dubitare, possiamo dire di non sapere, ma non possiamo autolimitarci alla sfera razionale che è quella che ci permette di conoscere, di fondare la nostra conoscenza su in terreno solido, ma non esaurisce il reale. La realtà supera la ragione (e perfino la fantasia).

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